Cass., Sez. lavoro, sent. del 4 febbraio 2015, n. 2022 – Pres. Macioce – Rel. Ghinoy – P.M. F. Ceroni – M.M. (avv. G.S. Assennato) c. Inail (avv. L. La Peccerella e E. Favata)
Malattia professionale – Termine di prescrizione ex art. 112 del d.P.R. 1124/1965 – Decorrenza dalla consapevolezza della malattia – Prova della consapevolezza anche per presunzioni – Sussistenza – Fattispecie di radiologo in grado di conoscere la malattia.
Artt. 111-112, D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124; artt. 2697, 2727 e 2729 c.c
Nel regime normativo attuale la manifestazione della malattia professionale, rilevante quale dies a quo per la decorrenza del termine prescrizionale di cui all’art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965, può ritenersi verificata quando la consapevolezza circa l’esistenza della malattia, la sua origine professionale ed il suo grado invalidante siano desumibili da eventi oggettivi ed esterni alla persona dell’assicurato, che costituiscano fatto noto, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c. (Fattispecie in cui la Corte di merito valorizzava la professione svolta dall’assicurato, tecnico di radiologia presso l’Ospedale Maggiore di Bologna, che lo poneva in grado di conoscere il rischio concretamente esistente correlato all’attività svolta, dimostrato dall’ampia esposizione bibliografica prodotta in giudizio dalla stessa parte, e quindi di essere consapevole della verosimile eziologia professionale della malattia, la cui gravità risultava acclarata dall’intervento chirurgico che si era poi reso necessario.)
(omissis) – Fatto
Con la sentenza n. 214 del 2007 la Corte d’Appello di Bologna confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda proposta da M.M. al fine di ottenere il riconoscimento della natura professionale della malattia – adenocarcinoma del grosso intestino – che asseriva di avere contratto nell’esercizio ed a causa dell’attività lavorativa di tecnico di radiologia svolta presso l’Ospedale (omissis).
La Corte argomentava che il diritto si era estinto per prescrizione D.P.R. n. 1124 del 1965, ex art. 112, essendo decorsi più di tre anni e 150 giorni tra l’intervento chirurgico del (omissis) cui egli si era sottoposto per l’asportazione del tumore, con i successivi cicli di chemioterapia, e la presentazione della domanda di malattia professionale all’Inail del 9 giugno 1998, considerato che a quella data egli, per la sua qualificazione professionale, era certamente in grado di conoscere la natura professionale della malattia e lo stato di inabilità indennizzabile.
Per la cassazione della sentenza M.M. ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo illustrato anche con memoria ex art. 378 c.p.c., cui ha resistito l’Inail con controricorso.
Motivi
- M.M. lamenta violazione di legge (D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 111 e 112 e art. 2697 c.c.) nonché vizio di motivazione. Argomenta che non sussisterebbe prova agli atti che alla data del 5 febbraio 1993 egli conoscesse la natura professionale della malattia e la sussistenza di un’invalidità indennizzabile e che, al contrario, lo stesso c.t.u. nominato dalla Corte aveva ritenuto che non fosse certo il nesso causale tra la malattia e l’attività lavorativa e per tale motivo la domanda era stata rigettata in sede amministrativa; inoltre, l’Ospedale Maggiore di (omissis) aveva inoltrato la denuncia di malattia professionale solo in data 2 aprile 1998. L’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per il decorso della prescrizione spettava inoltre all’Inail, che non vi aveva provveduto.
- Il ricorso non è fondato. Sotto il profilo della denunciata violazione di legge, la Corte di merito si è infatti attenuta ai principi affermati costantemente da questa Corte, secondo cui a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 206 del 1988 (dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 135, comma 2, nella parte in cui poneva una presunzione assoluta di verificazione della malattia professionale nel giorno in cui veniva presentata all’istituto assicuratore la denuncia con il certificato medico), nel regime normativo attuale la manifestazione della malattia professionale, rilevante quale dies a quo per la decorrenza del termine prescrizionale di cui all’art. 112 dello stesso D.P.R., può ritenersi verificata quando la consapevolezza circa l’esistenza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante siano desumibili da eventi oggettivi ed esterni alla persona dell’assicurato, che costituiscano fatto noto, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c. (Cass. n. 27323 del 2005, Cass. n. 14717 del 2006, Cass. n. 2285 del 2013). Non è ravvisabile, quindi, nella sentenza della Corte d’Appello, alcun contrasto con le disposizioni normative invocate dal ricorrente.
- Sotto il profilo del vizio di motivazione, occorre qui ribadire che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (pur nella formulazione vigente ratione temporis, anteriore alla modifica introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. nella L. n. 134 del 2012), non equivale a revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione del giudice del merito per una determinata soluzione della questione esaminata, posto che essa equivarrebbe ad un giudizio di fatto, risolvendosi in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità: con la conseguente estraneità all’ambito del vizio di motivazione della possibilità per questa Corte di procedere a nuovo giudizio di merito attraverso un’autonoma e propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. n. 5024 del 2012; Cass. n. 6694 del 2009). Sicché, per la configurazione di un vizio di motivazione su un asserito fatto decisivo della controversia è necessario che il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare l’efficacia probatoria delle risultanze fondanti il convincimento del giudice, onde la ratio decidendi appaia priva di base, ovvero che si tratti di elemento idoneo a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione e perciò tale che, se tenuto presente dal giudice, avrebbe potuto determinare una decisione diversa da quella adottata (Cass. n. 18368 del 2013, Cass. n. 16655 del 2011; Cass. (ord.) n. 2805 del 2011).
- A tale premessa consegue che la Corte di merito non ha realizzato il lamentato vizio di motivazione: ha infatti valorizzato, così come il Tribunale e le consulenze tecniche espletate sia in primo che in secondo grado, la professione svolta dall’assicurato, che lo poneva in grado di conoscere il rischio concretamente esistente correlato all’attività svolta, dimostrato dall’ampia esposizione bibliografica prodotta in giudizio dalla stessa parte (pg. 6 della sentenza), e quindi di essere consapevole della verosimile eziologia professionale della malattia, la cui gravita risultava acclarata dall’intervento chirurgico che si è reso necessario
- Le ulteriori circostanze richiamate nel ricorso, ovvero il fatto che la denuncia di malattia professionale da parte dell’Ospedale sia avvenuta solo nel (omissis) ed il fatto che la domanda sia stata respinta in sede amministrativa dall’Inail sulla base dell’assenza del nesso di causalità, non sono significative nel senso di privare di logica o invalidare il ragionamento della Corte di merito. Il ritardo del datore di lavoro nell’inoltrare la denuncia di malattia professionale attiene infatti al comportamento di un terzo, non necessariamente collegato né omogeneo rispetto alla consapevolezza dell’assicurato. Ai fini della decorrenza della prescrizione è poi necessario e sufficiente che l’assicurato possa individuare il nesso di causalità tra attività lavorativa e malattia con il grado di ragionevole probabilità tale da consentirgli di presentare la domanda di rendita, ed è a tale aspetto che la Corte ha avuto pertanto correttamente riguardo, non essendo necessario che tale valutazione sia poi condivisa dall’Inail in sede amministrativa o sia confermata in giudizio. (omissis)
ABSTRACT
La Corte di Cassazione si pronuncia nuovamente in tema di prescrizione dei diritti delle prestazioni erogate dall’Inail; in particolare, confermando un orientamento consolidatosi dal 2005, ritiene che, per la decorrenza della prescrizione dei diritti derivanti dalle malattie professionali occorra la consapevolezza della esistenza della malattia, della sua origine professionale e del suo grado invalidante: la prova di tale conoscenza può essere desunta da presunzioni ai sensi degli artt. 2727 e 2729 del Codice Civile.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi
Cass. n. 14717/2006; Cass. n. 22068/2013, Cass. n. 2285/2013; Cass. n. 2285/2013
Difforme
App. Torino, 6 giugno 2005
IL COMMENTO
di Gianni Casadio - Avvocato in Ravenna
Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione si è manifestata, negli ultimi anni, una linea interpretativa dell’art. 112 del T.U Infortuni (D.P.R. n. 1124/1965) che ha modificato sostanzialmente la materia dell’Istituto, riqualificando quello che tradizionalmente era stato interpretato come termine decadenziale in una “semplice” prescrizione che, in quanto tale, può essere interrotta anche con atto non giudiziale. Da applicazioni formalistiche che facevano decorrere il termine della manifestazione della malattia o del decesso dell’avente diritto, si è giunti a farlo decorrere dalla consapevolezza della esistenza della malattia, dalla sua origine professionale, dalla permanenza del grado invalidante, tutti elementi che devono costituire fatto noto o conoscibile con l’ordinaria diligenza dagli aventi diritto.
MALATTIA PROFESSIONALE E PRESCRIZIONE: QUANDO AD AMMALARSI È IL MEDICO.
Il tema in discussione
La Corte di Cassazione interviene nuovamente ad identificare il momento di decorrenza della prescrizione dell’azione per conseguire le prestazioni dell’Inail in caso di malattia da lavoro, o professionale.
La sentenza in commento non colpisce tanto per l’esito della decisione, che, in fin dei conti, si conforma ad un precedente orientamento espresso, ad esempio, in Cassazione, sez. lavoro, 31 gennaio 2013, n. 2285 ([1]), di cui si richiamano specularmente le motivazioni, quanto piuttosto per la soluzione data dalle corti di merito al caso concreto, confermata dalla sentenza della corte e per le implicazioni pratiche che tali principi comportano in tema di prescrizione.
Nel caso concreto, infatti, ad ammalarsi è un radiologo che ha certamente una conoscenza superiore alla media sia degli aspetti tecnici del suo lavoro, sia delle patologie che ne possono derivare. Ma prima dell’esame del caso concreto occorre partire da premesse generali.
Per capire l’attualità del tema conviene prendere le mosse da una premessa sistematica: la Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 179/1988 ([2]), ha di fatto introdotto nella legislazione italiana il sistema c.d. misto, in base al quale il sistema tabellare rimane in vigore, con il principio della presunzione legale d’origine delle malattie elencate nella tabella, ma è affiancato dalla possibilità, per l’assicurato, di dimostrare che la malattia non tabellata di cui è portatore, pur non ricorrendo le condizioni previste nelle tabelle, è di origine professionale. Il principio è richiamato dall’art. 10 del D. Lgs. n. 38/2000
Il tema è di grande attualità, specie in questi anni in cui sta aumentando la manifestazione delle c.d. malattie multifattoriali (tumorali per lo più, ma non solo). Si tratta di malattie che possono essere causate da più fattori: da agenti tossici presenti nell’ambiente di lavoro, da agenti tossici presenti nell’ambiente sociale, da fattori genetici e fisiologici, da abitudini di vita insane.
L’accertamento del nesso causale o concausale tra una malattia multifattoriale e l’ambiente lavorativo è quindi il più delle volte un procedimento complesso che deve tener conto oltre che delle leggi scientifiche e delle anamnesi medico-legali, di altri fattori di studio, quali le rilevazioni epidemiologiche generali e del singolo ambiente lavorativo.
Questa difficoltà non può che riflettersi anche sui diritti e sulla prescrizione dei diritti, in quanto il fatto che la malattia che si è subita è determinata dall’ambiente di lavoro piuttosto che dall’ambiente sociale o da altri fattori non è necessariamente di immediata conoscenza, o meglio, come vedremo, conoscibilità.
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([1]) Cass., 31 gennaio 2013, n. 2285, in Pluris; Cass, 26 giugno 2006, n. 14717, in Lav. giur., 2006, n. 11, 1127; Cass., 12 dicembre 2005, n. 27323, in Pluris.
([2]) Corte Cost., 18 febbraio 1988, n. 179, in Giur. it., 1988, I, 1, 1898.
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L’evoluzione dell’istituto
L’art. 112 del T.U. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, approvato con D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, dispone:
– al primo comma: «L’azione per conseguire le prestazioni di cui al presente titolo si prescrive nel temine di tre anni dal giorno dell’infortunio e da quello della manifestazione della malattia professionale»;
– ed al quarto comma: «La prescrizione dell’azione di cui al primo comma è interrotta quando gli eventi diritto all’indennità, ritenendo trattarsi di infortunio disciplinato dal titolo secondo del presente decreto, abbiano iniziato o proseguito le pratiche amministrative o la azione giudiziaria in conformità delle relative norme».
Un primo orientamento in materia, avvalorato dalle Sezioni Unite della Cassazione ([1]) e da una decisione della Corte Costituzionale ([2]) stabiliva che, nonostante la norma la definisse “prescrizione”, la stessa poteva essere interrotta solamente con l’azione giudiziale, quindi come fosse vera e propria decadenza.
Successive decisioni della Sezione Lavoro della Suprema Corte hanno stabilito che il termine triennale non si sottrae alle ulteriori cause interruttive stabilite nel codice civile. Del nuovo orientamento ha preso atto la Corte Costituzionale con la sentenza n. 297 del 14 luglio 1999 ([3]), che, con una pronuncia interpretativa di rigetto, ha stabilito due importanti principi:
– il primo è quello per cui il termine triennale non si sottrae alle ulteriori cause interruttive stabilite dal Codice civile, oltre che naturalmente all’azione giudiziale;
– tale termine comincia a decorrere solo dal momento della piena conoscenza, da parte del lavoratore, non solo dell’esistenza dello stato morboso, ma anche della sua eziologia e del raggiungimento della soglia indennizzabile.
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([1]) Cass., 8 ottobre 1985, n. 4857, in Giur. it., 1986, I, 1, 844.
([2]) Corte Cost., 23 maggio 1986, n. 129, in Giur. it., 1986, I, 1, 1425.
([3]) Corte Cost, 14 luglio 1999, n. 297, in Riv. giur. lav., 2000, II, 378.
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Conoscenza e conoscibilità: principio nella pratica
A norma dell’art. 2935 c.c., la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Poiché il diritto non può essere esercitato prima della sua insorgenza, il coordinamento dell’art. 112, comma 1, del T.U. cit. con l’art. 2935 c.c. comporta che per giorno dell’infortunio o della manifestazione della malattia professionale deve intendersi non già quello dell’evento, bensì quello evidentemente successivo in cui i postumi hanno raggiunto il minimo indennizzabile ([6]).
Entrano in gioco quindi due concetti: quello di emersione o manifestazione della malattia e quello di danno. Alla luce dell’insegnamento della Corte Costituzionale ([1]), il primo concetto va inteso come ogni emersione della malattia per segni o per sintomi, che sia univoca, quindi idonea a dare certezza dello stato morboso e dell’incidenza sulla salute ed a consentire all’interessato di far valere utilmente il suo diritto.
Rilevano quindi non solo le alterazioni organiche associate alla malattia, e neppure le manifestazioni della stessa che non siano normalmente riconoscibili come tali, ma segni e sintomi sufficientemente univoci da rendere edotto l’assicurato della realizzazione dell’evento protetto.
Il secondo concetto, cioè il verificarsi del danno, è sempre legato alla emersione oggettiva dello stesso e quindi alla sua conoscenza o conoscibilità. Non è certo sufficiente la mera consapevolezza dello “star male”, della sofferenza, ma occorre che il soggetto leso abbia la possibilità di conoscere la gravità delle conseguenze lesive anche con riferimento alla loro rilevanza giuridica.
Il principio, affermato anche recentemente in tema di responsabilità aquiliana, è il seguente: «Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’art. 2935 c.c., e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguentemente al comportamento doloso e colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche» ([2]).
L’individuazione del dies a quo, quindi non può essere ancorata solamente al parametro della esteriorizzazione del danno, in quanto in tal caso si negherebbe il diritto in tutta una serie di situazioni in cui il lavoratore non sia stato messo a conoscenza dei pericoli dell’ambiente lavorativo o in cui non vi siano ancora emersioni certe dal punto di vista scientifico o medico tra l’ambiente lavorativo e la causalità o concausalità lavorativa.
Occorre allora verificare, oltre alla conoscenza e alla conoscibilità della malattia e dell’emersione del danno giuridicamente risarcibile causato dalla stessa, anche la conoscenza e conoscibilità del rapporto eziologico con l’ambiente lavorativo. Come detto, ciò è particolarmente complicato nel caso delle malattie a genesi multifattoriale. Inoltre la conoscenza o conoscibilità è spesso limitata dalle informazioni – sarebbe meglio dire assenza di informazioni – sull’ambiente lavorativo e sugli eventuali elementi tossici o cancerogeni utilizzati nelle lavorazioni.
Nonostante i precisi obblighi stabiliti dalle norme di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, si assiste spesso ad una completa o parziale omissione di informazioni: caso clamoroso nelle nostre aule giudiziarie è stato l’amianto, utilizzato come coibente in numerosissime attività lavorative e della cui pericolosità nessuno ha mai dato informazione ad alcuno, almeno fino agli anni 1990 e oltre.
Di tali principi fa puntuale applicazione la decisione in commento, ritenendo che la decorrenza può «ritenersi verificata quando la consapevolezza circa l’esistenza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante siano desumibili da eventi oggettivi ed esterni alla persona dell’assicurato che ne costituiscono fatto noto, ai sensi degli art. 2727 e 2729 c.c.».
I concetti di conoscenza e conoscibilità vengono pertanto equiparati in riferimento alle presunzioni semplici, da cui il Giudice può trarre conseguenze ove siano gravi, precise e concordanti. Ciò significa che, ove non vi sia stata denuncia di malattia professionale (obbligatoria per ogni medico che ne riconosce l’esistenza ai sensi dell’art. 139 del T.U. Infortuni), si può trarre ugualmente la prova della conoscibilità del diritto da altri fatti.
Naturalmente non si potranno pretendere conoscenze specifiche del settore lavorativo o medico-legali, ma occorrerà fare riferimento alla cultura e alla conoscenza del soggetto nel caso concreto e alla diligenza del “buon padre di famiglia”. Principi, questi ultimi, la cui attuazione, nel caso di specie, ha comportato l’applicazione della prescrizione, essendo decorsi più di 3 anni e 150 giorni dall’intervento chirurgico per l’asportazione di un tumore contratto nell’esercizio dell’attività di tecnico radiologo. Non è dato sapere, in quanto non riportato in sentenza, se la malattia ipoteticamente causata dalle radiazione fosse una delle forme tumorali tabellate come conseguenza delle radiazioni al n. 81 della tabella Inail (D.P.R. n. 336 del 14 aprile 1994). In ogni caso, proprio la professione svolta dall’assicurato e quindi le specifiche competenze e conoscenze sui mezzi utilizzati e le eventuali conseguenze, unitamente all’ampia bibliografia depositata dalla stessa parte nel giudizio, hanno costituito quelle presunzioni di conoscibilità richieste dalla Corte.
Altro caso particolare in cui sono attuati i medesimi principi riguarda il diritto alla rendita ai superstiti, quando cioè il lavoratore non abbia inoltrato alcuna domanda in vita e la stessa sia inoltrata dai superstiti nel caso il decesso sia dovuto a malattia da lavoro.
Anche in questo caso la giurisprudenza si è evoluta in senso favorevole agli assicurati. Dalla fine degli anni ‘90, l’orientamento formalista che faceva decorrere la prescrizione dalla morte dell’assicurato, è stato infatti abbandonato.
Con la decisione n. 13145 del 1999 ([3]), poi consolidatasi in orientamento univoco ([4]), la Corte di Cassazione ha affermato che anche in questo caso la prescrizione decorre solamente dalla conoscenza o conoscibilità della ricollegabilità dell’evento a malattia professionale.
Nell’applicazione di tale principio è stata riconosciuta la rendita ai superstiti per malattia professionale in un caso in cui erano decorsi ben 22 anni dalla morte del congiunto ([5]).
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([1]) Corte Cost., 24 gennaio 1991, n. 31, in Dir. prat. lav., 1991, 1023.
([2]) Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 583, in Giur. it., 2008, n. 7, 1695; Cass., 11 gennaio 2008, n. 575; Cass., 29 agosto 2003, n. 12666, in Mass. giur. lav., 2003, 964; Cass., Sez. III, 10 giugno 1999, n. 5701, in Pluris.
([3]) Cass., 25 novembre 1999, n. 13145, in Pluris.
([4]) Cass., 20 aprile 2004, n. 7581, in Pluris; Cass., 25 marzo 2002, n. 4223, ivi; Trib. Ravenna, 16 maggio 2012, ined.
([5]) App. Bologna 17 luglio 2014, ined.
([6]) Corte Cost., 8 luglio 1969, n. 116, in Pluris.
Le difese dell’Inail: spesso il piede in due staffe
Si può rilevare nella decisione in commento, ma anche in due diverse decisioni della giurisprudenza di merito, come l’Inail, almeno nella fase amministrativa, non contesti la prescrizione o meglio spesso si difenda nel merito negando l’esistenza del diritto per assenza del nesso causale con l’ambiente lavorativo.
“Non vi è chi non veda”, come dicevano tempo fa i veri avvocati, come tale comportamento sia contradditorio: da un lato si afferma che non esiste o è incerto il nesso causale tra la malattia e l’ambiente lavorativo, dall’altra si sostiene che il diritto è prescritto perché l’assicurato (o i suoi eredi) dovevano conoscere la eziologia lavorativa della malattia da tempo.
Le conseguenze di tale contraddittorietà hanno dato esiti assolutamente diversi.
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione rileva infatti che «il fatto che la denuncia di malattia professionale da parte dell’ospedale sia avvenuta con ritardo (omissis) e il fatto che la domanda sia stata respinta dall’Inail sulla base dell’assenza del nesso di causalità non sono significative nel senso di privare la logica o invalidare il ragionamento delle corti di merito».
Su quest’ultimo aspetto la Corte ritiene che sia, sufficiente che l’assicurato possa individuare il nesso di causalità con grado di probabilità, non essendo necessario che tale valutazione sia condivisa dall’Inail.
In un caso analogo, il Tribunale di Parma, con sentenza del 30 ottobre 2013 ([1]), ha al contrario ritenuto che il comportamento dell’Inail sia inequivocabilmente incompatibile con la volontà di avvalersi della prescrizione maturata. La decisione cita un orientamento di Cassazione ([2]) secondo cui l’Inail, pur se Ente Pubblico gestore di diritti indisponibili e obblighi previdenziali, possa validamente disporre dei suoi diritti e quindi rinunciare alla prescrizione, che può formare anche oggetto di rinuncia tacita per effetto di comportamento incompatibile in modo non equivoco.
In verità nel caso di specie l’Inail, oltre ad istruire il procedimento con una valutazione medico-legale positiva, prima di comunicare il provvedimento formale di reiezione aveva comunicato anche altri atti (richieste di dati per forma di pagamento, ecc.) poi considerati incompatibili con l’eccezione di prescrizione.
Nella decisione del Tribunale di Ravenna ([3]), al contrario, la difesa dell’Inail circa l’inesistenza dell’eziologia professionale (per mancata tabellazione del rischio) viene assunta quale elemento di conferma della circostanza che i familiari non potessero essere a conoscenza, prima di avere avuto parere in tal senso da un medico legale, della eziologia professionale della malattia. È evidente, come anticipato in premessa, che proprio il sistema tabellare aperto e la possibilità che ricerche mediche o epidemiologiche portino alla scoperta di nuove cause di malattia – si pensi ad esempio agli attuali studi sui campi elettromagnetici – sono le conseguenze indirette della difficoltà a stabilire con esattezza la decorrenza dei termini prescrizionali in questa materia.
([1]) Trib. Parma, 30 ottobre 2013, ined.
([2]) Cass., 25 agosto 2006, n. 18534, in Pluris; Cass., 3 febbraio 2004, n. 1976, ivi; Cass., 19 dicembre 1995, n. 12968, ivi.
([3]) Trib. Ravenna, 16 maggio 2012, cit.
6 – Un Ulteriore Problema: il termine di 1 anno dalla mensilità da recuperare.
7 – Conclusioni e Auspici
Si deve necessariamente concludere nel senso che, nonostante i correttivi operati dalla giurisprudenza e le recenti aperture dell’INPS, almeno in molti casi, risulti ancora difficile per il lavoratore realizzare il proprio credito retributivo, tutelato dall’art. 36 della Costituzione, nel caso di insolvenza dell’impresa. Gli ostacoli sono dati dalle restanti rigidità interpretative dell’INPS, presso cui è istituito il Fondo di garanzia, dai tempi e dai costi necessari prima per l’accertamento del credito, poi per la dimostrazione dell’insolvenza e dell’esperimento dell’istanza di fallimento e del tentativo di esecuzione. Tutto ciò contro l’intenzione del legislatore comunitario e nazionale, che con le disposizioni in esame intendevano al contrario dare garanzia di recupero e tempestività. Nella pratica si può considerare che il termine di 1 anno, che sembra breve e penalizzante per il lavoratore quando ne misura la decadenza, nella realtà diventa un lungo deserto da percorrere quando coincide, come è il più delle volte, con il tempo necessario per il primo recupero del credito. Infatti per arrivare all’agognato pagamento il lavoratore che non ha ricevuto i salari deve intraprendere azione di accertamento – tentativo di esecuzione – quasi sempre istanza di fallimento – raccolta di visure immobiliari e altri documenti – con tempi e costi non prevedibili. Nel caso – remoto per fortuna – in cui debba esperire esecuzioni immobiliari i tempi e i costi si dilatano a dismisura. Occorre quindi ripensare l’Istituto, rendendolo effettivo ed efficace ad evitare situazioni di difficoltà e addirittura di indigenza. Una soluzione potrebbe essere quella di prevedere una sorta di provvisionale, di acconto sul recupero pagato dal Fondo, che potrebbe scattare con autodichiarazione prima dell’attivazione della procedura concorsuale o del tentativo di esecuzione individuale. In ogni caso è auspicabile che l’INPS, dopo le prime aperture, si adoperi per rendere più agevole e meno onerosa la procedura amministrativa.
Note:
(1) Corte di Giustizia 7 febbraio 1985, causa 135/83.
(2) Così Cass. 1 febbraio 2005 n. 1885; Cass. 3 settembre 2007 n. 18481; Cass. 8 maggio 2008 n. 11379; Cass. 14 maggio 2008 n. 12105.
(3) L. 29 maggio 1982 n. 297, art. 2 – Disciplina del trattamento di fine Rapporto.
(4) Art. 2 co. 5 Legge 287/1982.
(5) Corte di Cassazione 27.03.2007 n. 7466; Corte di Cassazione 19 gennaio 2009 n. 1178.
(6) G. Civale: Insolvenza dell’imprenditore e tutela dei crediti di lavoro R.G.L. 1993, I, 442.
(7) Corte di Giustizia, 2 febbraio 1989, Causa n. 22/87 F.I. 1992, IV, 22.
(8) Corte di Giustizia 19 novembre 1991, causa Francovich, F.I. 1992, IV, 146.
(9) Così Cass. Sez. Lav. 9.03.2001 n. 3511; Cass. 29.01.2002 n. 1136.
(10) di cui ai capi II, III, IV, del Titolo II libro III del Codice Civile.
(11) Così, nel merito Tribunale di Ravenna, est. Dott.ssa Allegra – Sentenza 5.11.2008