La funzione del Fondo di Garanzia istituito presso l’INPS è quella di dare garanzia per il lavoratore che non abbia ricevuto il pagamento del T.F.R. e delle ultime mensilità nel caso di insolvenza del datore di lavoro. Tale situazione si realizza sia in caso di apertura di procedura concorsuale, sia nel caso la procedura concorsuale non venga aperta e l’imprenditore sia incapiente, cioè risulti negativa l’esecuzione forzata. Una recente circolare dell’INPS, la circolare n.32 del 04.03.2010, ha risolto alcune zone d’ombra che negavano tale diritto ai dipendenti in determinate circostanze. Ciononostante permangono ostacoli, creati dai tempi di attuazione, dalla necessità di proporre più atti processuali, dai costi e dalla burocrazia, che spesso ne vanificano, almeno in parte, la funzione di garanzia e di sostegno del reddito familiare.
1 - La Direttiva della CEE e la Normativa Italiana
Il Consiglio della CEE, con la Direttiva n. 987/80 ha voluto garantire ai lavoratori subordinati una tutela minima in caso di insolvenza del datore di lavoro. Allo scopo la direttiva ha delineato un meccanismo di tutela basato sulla creazione di specifici organismi di garanzia, che si sostituiscono al datore di lavoro per il pagamento di taluni crediti dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza di quest’ultimo. In attuazione di detta direttiva lo Stato italiano ha adottato due testi normativi, la legge 29 maggio 1982, n. 297, istitutiva del Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto ed il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80, con il quale la garanzia è stata estesa anche alle ultime retribuzioni (artt.1 e 2). Di recente, la disciplina del Fondo di Garanzia è stata integrata dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 186 adottato in attuazione della direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 2002/74/CE del 23 settembre 2002, che ha regolamentato le cd. Situazioni transnazionali. La direttiva subordinava però l’intervento ai datori in insolvenza (art.1) assoggettati, cioè a procedimento che riguarda il patrimonio del datore di lavoro ed è volto a soddisfare collettivamente i creditori di quest’ultimo. (art.2). Ne risulta quindi che l’applicazione della direttiva è subordinata alle soggezione del datore di lavoro a fallimento o ad altra procedura concorsuale, con analoga finalità liquidatoria del patrimonio del debitore (1). L’art. 9 della direttiva fa salve le condizioni di miglior favore previste dagli ordinamenti nazionali. Proprio questo è accaduto nel nostro ordinamento, almeno secondo l’“obiter dictum” di alcune decisioni della Corte di Cassazione (2). Nel dare attuazione alla direttiva (n.80/987), il legislatore italiano infatti, ha istituito il fondo di garanzia – per assicurare soddisfazione effettiva al credito dei lavoratori per il trattamento di fine rapporto – ed ha stabilito (comma 5°) che – qualora il datore di lavoro non sia soggetto alle procedure concorsuali (di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n.267) – “Il lavoratore o i suoi aventi diritto possono chiedere al fondo il pagamento del trattamento di fine rapporto, sempre che, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito relativo a detto trattamento, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti”.(3) Il Fondo di garanzia interviene quindi in primo luogo in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e concordato preventivo.
Ancora in attuazione della normativa europea (4) il DLgs 27 gennaio 1992 n.80 ha stabilito che il fondo deve intervenire anche nel pagamento dei crediti di lavoro non corrisposti al dipendente relativamente agli ultimi tre mesi del rapporto lavorativo.
Anche in questo caso si prevede che le tre mensilità possano essere chieste al Fondo di garanzia anche se l’imprenditore non è soggetto a fallimento, a condizione che sia stata esperita negativamente l’esecuzione forzata.
2 – Il cono d’ombra creato dall’INPS nella prima applicazione della normativa.
L’INPS giustamente distingue, nelle proprie circolari applicative, a seconda che il datore di lavoro sia soggetto o meno alle disposizioni della Legge Fallimentare, in quanto diversi sono i requisiti del diritto, i presupposti e la documentazione da produrre per l’accesso la Fondo di Garanzia. Purtroppo, per i lavoratori, nell’operare tale distinzione l’INPS crea un cono d’ombra, un vuoto di tutele, dato dalla situazione del datore di lavoro che, pur teoricamente soggetto alla legge fallimentare, di fatto non fallisce. L’INPS ritiene inizialmente che il presupposto per l’intervento del Fondo di Garanzia nel caso di datore assoggettabile alla Legge Fallimentare sia unicamente la dichiarazione di fallimento. In ogni caso in cui il fallimento non sia dichiarato, come nel caso la società sia cessata da oltre 1 anno oppure per inutilità della procedura, l’INPS quindi non paga, ritenendo che il presupposto del pagamento debba essere sempre la dichiarazione di fallimento e l’accertamento dello Stato Passivo, potendosene prescindere solamente nell’ipotesi di impresa non soggetta alla Legge Fallimentare (piccolo imprenditore). La norma così recita: “Qualora il datore di lavoro, non soggetto alle disposizioni del R.D. 16 marzo 1942 n.267, non adempia, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, alla corresponsione del trattamento dovuto o vi adempia in misura parziale, il lavoratore o i suoi aventi diritto possono chiedere al fondo il pagamento del T.F.R.. sempreché, a seguito dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito relativo a detto trattamento, le garanzie siano risultate in tutto o in parte insufficienti”. Contro la interpretazione restrittiva dell’Inps ha preso posizione la Corte di Cassazione (5), secondo cui l’espressione “non soggetto alle disposizioni del R.D… n.267/1942”, va interpretata nel senso che l’azione della citata L.297/1982, art. 2, co.5, trova ingresso quante volte il datore di lavoro non sia assoggettato a Fallimento per le condizioni oggettive (piccolo o imprenditore, vuoi per ragioni ostative di genere oggettivo (ad esempio ditta cessata da oltre 1 anno). L’imprenditore non più assoggettabile alla Legge Fallimentare va quindi considerato come imprenditore non soggetto alla Legge Fallimentare. Le decisioni della Corte di Cassazione muovono dalla lettura della Direttiva Comunitaria e dalla finalità della stessa. La Direttiva CEE n.987/1980 prevede infatti l’intervento del Fondo di Garanzia sia quando l’autorità competente abbia deciso l’apertura del procedimento “liquidatorio”, ovvero quando ha constatato la chiusura definitiva dell’impresa e l’insufficienza dell’attivo disponibile a giustificare l’apertura del procedimento. L’intento del legislatore comunitario è stato quindi quello di apprestare garanzia concreta al T.F.R., che non può essere vanificata da cause inerenti alle limitazioni soggettive e oggettive date dalle norme sulle procedure concorsuali. A ben vedere quindi la Corte di Cassazione ritorna su se stessa, ripensando in qualche modo la valutazione di “migliorativo” dato all’intervento del legislatore italiano, e rifacendosi alle fonti comunitarie per dare concretezza ed effettività alla garanzia, respingendo quindi la lettura restrittiva dell’Ente previdenziale. La disciplina comunitaria infatti prendeva le mosse dal presupposto di inefficacia delle forme tradizionali di tutele dei crediti di lavoro in caso di insolvenza basate solamente, all’epoca, sul sistema dei privilegi concorsuali.(6) In particolare era evidente che i diritti economici dei lavoratori erano condizionati e spesso vanificati sia per l’eccessiva lunghezza delle procedure, sia per l’insufficienza della massa attiva a far fronte ai crediti privilegiati. Il processo di trasposizione della direttiva negli ordinamenti interni non è stato semplice, in particolare per l’Italia. Il legislatore italiano ha infatti dapprima adottato un regime di protezione limitato al Trattamento di Fine Rapporto. Ciò non ha impedito alla Corte di Giustizia, nell’ambito di un procedimento di infrazione ex art. 169 del Trattato CE, di dichiarare l’Italia inadempiente perché limitata appunto a tale indennità. (7) La Corte poi, perdurando l’inerzia del legislatore italiano nel recepire compiutamente la direttiva ha stabilito che lo Stato italiano deve risarcire i singoli danni che dall’inadempienza conseguono.(8) In seguito quindi l’Italia ha provveduto a completare il recepimento della Direttiva attraverso il D.Lgs. 27 gennaio 1992 n.80 che estende il Fondo di garanzia alle ultime 3 mensilità, pur con qualche limitazione.
3 – La Nuova Legge Fallimentare: il cono d’ombra attuato inizialmente dall’INPS si allarga.
La Legge Fallimentare è stata riformata dal D.Lgs 9.01.2006 n.5 e del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169.
L’art. 1 della Legge fallimentare, così come modificato da tali interventi legislativi, stabilisce che sono soggetti al fallimento e al Concordato Preventivo gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici. Il secondo comma precisa che sono altresì esclusi gli imprenditori che dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: – di aver avuto, in ciascuno dei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare annuo non superiore ad euro trecentomila; – aver realizzato, in qualunque modo risulti, in ciascuno dei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; – avere un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiori ad euro cinquecentomila. Pertanto, ai fini dell’applicazione della legge fallimentare, perdono ogni rilevanza sia la nozione di piccolo imprenditore, sia la forma con la quale viene esercitata l’impresa (individuale o collettiva). L’onere di dimostrare il possesso congiunto dei requisiti sopra indicati grava sull’imprenditore il quale, nel caso in cui non partecipi all’istruttoria prefallimentare (o nel corso della stessa non emergano elementi di prova sufficienti), verrà dichiarato fallito. Risulta immediatamente evidente la difficoltà di stabilire con certezza i requisiti soggettivi per l’applicazione della Legge Fallimentare, che sono diventati di ordine quantitativo. L’INPS ha emanato, dopo la riforma della Legge Fallimentare, ben tre circolari, la n.53 del 7.03.2007 e la n.74 del 15.07.2008, che sostituisce la precedente e la recentissima n.32 del 4.03.2010. Nelle prime circolari l’INPS rimarca che grava sul lavoratore l’onere di dimostrare la non assogettabilità del datore di lavoro a procedura concorsuale(9), quindi il lavoratore dovrà esibire copia della reiezione del Tribunale dell’Istanza di fallimento per insussistenza dei presupposti (e non per i motivi di cui agli art. 10,11 e 15, comma 9 della L.F.). Diventa allora sempre più oneroso per il lavoratore accedere al Fondo di Garanzia nel caso in cui non sia dichiarato il fallimento: infatti dovrà prima ottenere l’accertamento giudiziale del credito – attraverso procedura monitoria o addirittura ordinaria nel caso il datore di lavoro non consegni il conteggio – e poi procedere comunque alla istanza di fallimento. Ma non basta, l’accenno sibillino della circolare – “e non per i motivi di cui agli art. 10, 11e 15” – viene a integrare la dilatazione del cono di ombra (assenza di tutela) di cui sopra. In talune ipotesi infatti, non si dà luogo all’apertura della procedura concorsuale: quando a norma degli art. 10 e 11 L.F. l’imprenditore non può essere dichiarato fallito essendo trascorso più di un anno dalla cancellazione nel registro delle imprese; nel caso previsto dall’art. 15, in cui risulti che il complessivo ammontare dei debiti scaduti e non pagati accertati nel corso dell’istruttoria prefallimentare è inferiore a €.30.000,00 limite riferito a tutti i debiti dell’azienda. In queste ipotesi l’INPS ritiene in un primo tempo, che non potranno trovare accoglimento le domande presentate sulla base dei requisiti che devono far valere i dipendenti di datori di lavoro non soggetti alle procedure concorsuali. In questi casi quindi non si potrà accedere al Fondo di Garanzia neppure allegando l’esecuzione non andata a buon fine. A ben vedere quindi l’INPS in un primo momento allarga l’area di mancata tutela al caso in cui la procedura non sia aperta per esiguità dell’insolvenza. E’ chiaro che si tratta di un’interpretazione errata per eccesso di formalismo, di cui vari precedenti della Corte di legittimità hanno fatto giustizia, e infatti, con due anni di ritardo, l’Istituto si adegua.
4 – L’INPS ci ripensa: la Circolare n. 32 del 4.03.2010
Stimolata dai giudici e dalle istanze dei lavoratori l’INPS, in questa ultima circolare, prende atto che “Il funzionamento del Fondo di Garanzia per il T.F.R., nel corso degli anni, ha evidenziato alcune difficoltà operative, per la maggior parte dovute a una carenza di coordinamento tra la legge 29 maggio 1988 n.297 – istitutiva del Fondo stesso – e il nuovo diritto Fallimentare introdotto dai Decreti Legislativi n. 5/2006 e 169/2007. L’Istituto Previdenziale riferisce della necessità di interpretare la legislazione italiana conformemente ai precetti dell’Unione Europea e quindi di dare effettività alle tutele e di armonizzare il concetto di insolvenza. L’Istituto dà applicazione alla giurisprudenza che interpreta l’espressione “non soggetto alle disposizioni del R.D. 267/42” come in concreto non assoggettabile a fallimento e pertanto accetta che in tutti i casi in cui il Tribunale non proceda all’apertura della procedura concorsuale, il lavoratore potrà aver accesso al Fondo di Garanzia sulla base dei requisiti dell’art. 2, comma 5 L. 297/82, cioè la prova del tentativo di espropriazione. La circolare risolve poi l’ulteriore nodo dato dall’art. 102 L.F., cioè della possibilità di non procedere alla verifica dello Stato passivo per insufficienza di attivo da distribuire ai creditori. In questo caso non viene svolto l’accertamento del credito attraverso il deposito dello Stato Passivo, e ciò, ostacolava, come detto, l’intervento del Fondo. Anche qui l’INPS fa marcia indietro e prevede il pagamento del fondo, a condizione che si documenti l’originale del titolo esecutivo – decreto ingiuntivo o sentenza – con il quale il credito è stato riconosciuto, il ricorso che ha dato origine al provvedimento e il verbale di pignoramento negativo, oltre alla visura o certificato della conservatoria dei registri immobiliari dei luoghi di nascita e di residenza del datore di lavoro. Nella sostanza quindi l’Istituto Previdenziale ha rivisto le proprie posizioni eliminando quei vuoti di tutela che erano emersi nelle prime applicazioni e poi a seguito dalle modifiche della Legge Fallimentare. Rimangono ostacoli, burocrazie inutili e incertezze. Ne è l’esempio l’elenco dei documenti appena citato che prevede si debba dimostrare che l’imprenditore non ha beni immobili né dove è nato, né dove risiede. Ma se l’imprenditore è proprietario di un piccolo appartamento, magari in comproprietà con la moglie, cosa deve fare il lavoratore per riscuotere il TFR o le ultime mensilità? Secondo l’Istituto Previdenziale dovrà attuare l’espropriazione immobiliare, procedura che ha fatalmente tempi lunghi, costi notevoli da anticipare ed esiti incerti.
5 – Il Percorso è comunque complicato: La Diligenza dell’Azione Esecutiva.
Come si è visto, la garanzia è stata opportunamente estesa dalla legge anche alle insolvenze dei datori di lavoro non soggetti alla legge fallimentare – o comunque non fallibili – ma in tal caso risulta, per il lavoratore, più faticoso accedervi perché oltre all’accertamento giudiziale del credito e alla dimostrazione di “non fallibilità” occorre anche la dimostrazione dell’esperimento, risultante in tutto o in parte inutile, dell’azione esecutiva. L’inciso della norma “sempreché a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata” si riferisce evidentemente all’insieme dei mezzi di espropriazione che il legislatore ha messo a disposizione del creditore per la realizzazione coattiva del diritto (10). In mancanza di ulteriori indicazioni da parte del legislatore, è la giurisprudenza che sta cercando di definire gli oneri posti a carico del creditore per cercare di ottenere la soddisfazione del credito. Il principio affermato in generale è quello per cui il lavoratore deve dimostrare la mancanza o l’insufficienza delle garanzie patrimoniali del debitore attraverso l’esperimento di un serio tentativo di esecuzione usando l’ordinaria diligenza. Sui confini di tale diligenza si sono formati due orientamenti: il primo, più risalente tende ad applicazione più rigorosa della norma; il secondo, più recente, ispirato a maggior favore nei confronti del lavoratore. Si segnalano nel primo orientamento le Sentenze della Corte di Cassazione del 28 marzo 2003 n. 4783 in cui si precisa che il creditore deve dimostrare di aver effettuato ricerche in tutti i luoghi ricollegabili alla persona del debitore, quali, oltre alla sede dell’azienda, il domicilio, la residenza, il luogo di nascita. Anche con la Sentenza dell’11 luglio 2003 n. 10953 la Suprema Corte, in un caso in cui il debitore era un’associazione non riconosciuta, impone al dipendente l’onere di compiere tutte le ricerche relativamente ai soggetti personalmente responsabili in ordine alla titolarità di beni mobili o immobili o altri diritti, non ritenendo sufficiente il tentativo di pignoramento mobiliare presso la sede dell’associazione. Il secondo orientamento è ispirato al favore nei confronti del lavoratore, in coerenza con i principi espressi dalla Direttiva CEE n. 80/1987. Secondo questo orientamento sarebbe sufficiente per il lavoratore dimostrare di aver tentato l’esecuzione forzata mobiliare nella sede dell’azienda, mentre spetta all’INPS, che poi può esercitare il diritto di surroga (art. 2. settimo comma) e che ne ha gli strumenti, essendo le sue sedi dislocate su tutto il territorio nazionale, a dover effettuare le opportune ricerche allo scopo di conseguire dal datore di lavoro, eventualmente proprietario di beni in altri luoghi, la somma erogata dal Fondo di Garanzia. Già con le decisioni del 9 marzo 2001 e del 29 gennaio 2002 n. 1136 la Corte aveva ritenuto che l’esperimento di un iniziale tentativo di esecuzione potrebbe costituire una presunzione legale circa l’insufficienza delle garanzie patrimoniali del debitore. Pertanto, a norma dell’art. 2728 del Codice Civile, non viene richiesto al creditore, in aggiunta all’esperimento della esecuzione, condotta in modo serio e adeguato anche se infruttuosa, di procedere ad ulteriori tentativi e ricerche. In particolare la decisione del 2002 n. 1136 esclude che il lavoratore debba esperire una esecuzione presso terzi perché normalmente non conosce i crediti del datore di lavoro, né che debba esperire esecuzione immobiliare, né di inserirsi in una procedura immobiliare sicuramente incapiente – era il caso di specie -. La Sentenza del 29 luglio 2004 n. 14447 si inserisce in questo filone e dispone che la diligenza richiesta allo stesso lavoratore deve essere intesa in termini di economicità, pertanto non potrà imporsi al creditore di intraprendere o proseguire un’azione esecutiva i cui costi superino il valore complessivo del credito che si rivendica. Quindi, quando si prospetta la possibilità di esperire più forme di esecuzione, il creditore è tenuto a esperire solo quelle che appaiono fruttuose secondo il principio dell’ordinaria diligenza, non anche quelle che appaiono aleatorie o quelle i cui costi certi sembrano poter superare i benefici possibili. Questo è certamente il caso delle esecuzioni immobiliari in cui il lavoratore, pur non onerato di spese di bollo, è comunque tenuto a versare consistenti anticipazioni. La sentenza 16 gennaio 2004 n. 625 ripercorre i due orientamenti ed afferma in modo deciso l’inconsistenza della tesi secondo cui il creditore, dopo l’inutile esperimento della esecuzione mobiliare presso l’impresa debba effettuare ricerca di beni mobili o immobili in altre sedi. Recentemente poi tale principio si è consolidato sino a diventare assolutamente prevalente con le decisioni del 17 aprile 2007 n. 9108 e del 19 gennaio 2009 n. 1178. La prima risolve il caso in cui altri dipendenti abbiano già intrapreso azione esecutiva infruttuosa. Se è vero che il tentativo di esecuzione di cui è onerato il lavoratore ha quale unico fine quello di verificare la mancanza o l’insufficienza della garanzia del patrimonio del datore di lavoro, è anche vero che, ove la prova dell’insufficienza del patrimonio sia stata già acquisita attraverso precedenti procedure esecutive o altri elementi, l’INPS, quale gestore del fondo, è tenuto alla prestazione prevista dalla norma senza poter pretendere dal lavoratore l’esperimento di ulteriori tentativi di esecuzione. Nella specie la prova dell’insufficienza del patrimonio del datore di lavoro doveva ritenersi acquisita agli atti, ove si consideri, fra l’altro, che altri lavoratori, creditori dello stesso datore di lavoro, avevano già esperito infruttuosamente l’esecuzione forzata nei suoi confronti. La seconda ribadisce che l’onere di procedere ulteriormente non è richiesto quando l’esperimento della esecuzione forzata ecceda i limiti dell’ordinaria diligenza ovvero la mancanza o l’insufficienza delle garanzie patrimoniali possa risultare provata in relazione alla circostanza del caso concreto. Il principio desumibile dalla giurisprudenza è il seguente: per conseguire l’intervento del fondo di garanzia ai sensi della L. n.297 del 1982, art.2, comma 5, è sufficiente che il lavoratore abbia esperito infruttuosamente una procedura di esecuzione mobiliare. Salvo che risultino in atti altre circostanze le quali dimostrano che (o il Fondo provi che) esistono altri beni aggredibili con l’azione esecutiva (11). Anche così semplificando non è agevole per il dipendente arrivare al fondo ed inoltre permangono ulteriori difficoltà in casi particolari. Nel caso, ad esempio in cui il datore di lavoro sia deceduto l’INPS pretende l’azione esecutiva nei confronti di tutti gli eredi.
L’INPS poi distingue tra il pignoramento negativo e il mancato pignoramento, stabilendo che il secondo può essere equiparato al primo quando – a) l’Ufficiale Giudiziario abbia accertato l’irreperibilità del datore di lavoro all’indirizzo di residenza; – b) l’Ufficiale Giudiziario abbia constatato, in almeno due accessi, l’assenza del debitore. Anche in questo caso la necessità di due tentativi di pignoramento sembra eccessiva.
6 – Un Ulteriore Problema: il termine di 1 anno dalla mensilità da recuperare.
Come si è visto il fondo corrisponde esclusivamente i crediti retributivi inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro (con il tetto massimo dell’importo della CIG corrispondente a quel mese) purché siano compresi nell’arco di 12 mesi andando a ritroso dalla data della Procedura Concorsuale. In un primo momento l’INPS riteneva che il termine di 1 anno non dovesse trascorrere prima dell’apertura della procedura, penalizzando così molti lavoratori che si trovavano sottoposti all’incertezza dei tempi del Tribunale, anche avendo depositato tempestivamente l’Istanza di Fallimento. La Corte di Giustizia della Comunità Europea, con la Sentenza del 10 luglio 1997 ha risolto tale incertezza, stabilendo che il termine va fatto risalire alla Istanza Diretta all’apertura della Procedura Concorsuale. Ne deriva quanto segue: – In caso di Fallimento il dies a quo da cui partire per individuare i dodici mesi in cui devono essere compresi gli ulteriori tre del rapporto è la data del deposito in Tribunale del primo ricorso che ha originato la Dichiarazione di Fallimento, indipendentemente dal soggetto che l’ha proposto (Circolare INPS n. 74/2008). – In caso di Concordato Preventivo il dies a quo è la data del ricorso per l’apertura della Procedura (art.161 L.F.). – In caso di Liquidazione Coatta Amministrativa il dies a quo è la data del ricorso al Tribunale per la dichiarazione di insolvenza (art. 195 L.F.)
L’INPS ha poi precisato ulteriormente che qualora il lavoratore, prima delle date indicate nei punti precedenti, abbia agito in giudizio per il soddisfacimento dei crediti per i quali chiede il pagamento del Fondo, il dies a quo da cui calcolare a ritroso i 12 mesi è la data di deposito del relativo ricorso. Naturalmente il termine “ricorso” comprende sia il ricorso per l’azione monitoria che il ricorso ordinario e a maggior ragione l’eventuale ricorso per sequestro conservativo. L’INPS non si spinge a considerare valida per l’interruzione la richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione ex art. 410 C.P.C., in quanto, secondo l’Istituto, non può essere equiparata ad azione giudiziaria. Anche in questo caso l’INPS sbaglia in quanto l’art. 410 C.P.C., che regolamenta appunto il tentativo di conciliazione, al comma 2, prevede che “la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”. Lo stesso Istituto, nella parte della circolare relativa alla prescrizione rileva che: “La Corte di Cassazione tuttavia ha affermato, secondo l’indirizzo maggiormente accreditato, che il Fondo di Garanzia in virtù dell’accollo legislativamente previsto diviene debitore solidale del datore di lavoro; ne consegue che, in forza dell’art. 1310 del codice civile, tutti gli atti con i quali il lavoratore interrompe la prescrizione nei confronti del datore di lavoro hanno effetti anche nei confronti del fondo di Garanzia e che l’eventuale rinunzia alla prescrizione fatta dal datore di lavoro (o dalla procedura concorsuale) non ha efficacia nei confronti del Fondo”. Il principio è chiaro e condivisibile: allora perché mai non viene portato alla logica conseguenza che anche il tentativo di conciliazione interrompe il decorso del termine annuale?
7 – Conclusioni e Auspici
Si deve necessariamente concludere nel senso che, nonostante i correttivi operati dalla giurisprudenza e le recenti aperture dell’INPS, almeno in molti casi, risulti ancora difficile per il lavoratore realizzare il proprio credito retributivo, tutelato dall’art. 36 della Costituzione, nel caso di insolvenza dell’impresa. Gli ostacoli sono dati dalle restanti rigidità interpretative dell’INPS, presso cui è istituito il Fondo di garanzia, dai tempi e dai costi necessari prima per l’accertamento del credito, poi per la dimostrazione dell’insolvenza e dell’esperimento dell’istanza di fallimento e del tentativo di esecuzione. Tutto ciò contro l’intenzione del legislatore comunitario e nazionale, che con le disposizioni in esame intendevano al contrario dare garanzia di recupero e tempestività. Nella pratica si può considerare che il termine di 1 anno, che sembra breve e penalizzante per il lavoratore quando ne misura la decadenza, nella realtà diventa un lungo deserto da percorrere quando coincide, come è il più delle volte, con il tempo necessario per il primo recupero del credito. Infatti per arrivare all’agognato pagamento il lavoratore che non ha ricevuto i salari deve intraprendere azione di accertamento – tentativo di esecuzione – quasi sempre istanza di fallimento – raccolta di visure immobiliari e altri documenti – con tempi e costi non prevedibili. Nel caso – remoto per fortuna – in cui debba esperire esecuzioni immobiliari i tempi e i costi si dilatano a dismisura. Occorre quindi ripensare l’Istituto, rendendolo effettivo ed efficace ad evitare situazioni di difficoltà e addirittura di indigenza. Una soluzione potrebbe essere quella di prevedere una sorta di provvisionale, di acconto sul recupero pagato dal Fondo, che potrebbe scattare con autodichiarazione prima dell’attivazione della procedura concorsuale o del tentativo di esecuzione individuale. In ogni caso è auspicabile che l’INPS, dopo le prime aperture, si adoperi per rendere più agevole e meno onerosa la procedura amministrativa.
Note:
(1) Corte di Giustizia 7 febbraio 1985, causa 135/83.
(2) Così Cass. 1 febbraio 2005 n. 1885; Cass. 3 settembre 2007 n. 18481; Cass. 8 maggio 2008 n. 11379; Cass. 14 maggio 2008 n. 12105.
(3) L. 29 maggio 1982 n. 297, art. 2 – Disciplina del trattamento di fine Rapporto.
(4) Art. 2 co. 5 Legge 287/1982.
(5) Corte di Cassazione 27.03.2007 n. 7466; Corte di Cassazione 19 gennaio 2009 n. 1178.
(6) G. Civale: Insolvenza dell’imprenditore e tutela dei crediti di lavoro R.G.L. 1993, I, 442.
(7) Corte di Giustizia, 2 febbraio 1989, Causa n. 22/87 F.I. 1992, IV, 22.
(8) Corte di Giustizia 19 novembre 1991, causa Francovich, F.I. 1992, IV, 146.
(9) Così Cass. Sez. Lav. 9.03.2001 n. 3511; Cass. 29.01.2002 n. 1136.
(10) di cui ai capi II, III, IV, del Titolo II libro III del Codice Civile.
(11) Così, nel merito Tribunale di Ravenna, est. Dott.ssa Allegra – Sentenza 5.11.2008