Profili preliminari. Una concreta applicazione del principio del “giusto processo” ex articolo 111 della Costituzione
Trattando di diritti sindacali, presentiamo questo caso in cui la sentenza in commento non colpisce tanto per l’esito della decisione, che, in fin dei conti, si conforma ad un precedente (ma non pacificamente condiviso) orientamento espresso, ad esempio, in Cassazione civile, sez. lavoro, 01 febbraio 2005 n. 1892, di cui si richiamano specularmente le motivazioni (salvo, poi, integrarle o confonderle con quelle della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del 2013), quanto piuttosto il tono appassionato ed accademico (non sempre, però, nel senso peggiore del termine) che affiora tra le righe della motivazione. Tale atteggiamento emerge fin dalle prime battute della sentenza, specie quando il Collegio adito “bacchetta” la Corte d’Appello di Firenze, da cui proviene la sentenza impugnata, in quanto, facendo riferimento ad una precedente decisione del giudice di legittimità, si è discostata dalla sentenza n. 1892 del 01 febbraio 2005 e, cosa ancor più grave, lo ha fatto con un atteggiamento “doloso”, che il Collegio così riassume: “La Corte fiorentina, pur essendo consapevole della soluzione affermativa data a tale questione da questa Corte nella sentenza 1 febbraio 2005 n. 1982, se ne è discostata”. Dopo questa piccata osservazione, che sa più da monito paternalistico che non da principio di diritto[1], la Cassazione torna su toni più amorevoli e, deposta per un attimo la toga da supremo magistrato ed indossata quella da professore universitario, descrive analiticamente (ed in alcuni tratti anche ripetitivamente) l’istituto della rappresentatività sindacale alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013, giungendo alla formulazione del principio di diritto per cui la prerogativa di indire assemblee sindacali rientra tra i diritti attribuiti alla RSU non solo nel suo complesso, ma anche a ciascun singolo componente di quella RSU, purché eletto nelle liste di un sindacato che rivesta i caratteri della rappresentatività come enucleati dalla citata sentenza della Consulta.
Ad ogni modo, prima di analizzare le ragioni che hanno portato la Corte di Cassazione ad attestarsi nuovamente su questa posizione, occorre ripercorrere, seppur sinteticamente, la vicenda processuale che ha portato a questa pronuncia. Tutto inizia più di dieci anni fa, quando la società Telecom Italia s.p.a. nega ad un membro della RSU eletto nelle liste della Federazione Lavoratori Metalmeccanici Uniti di Firenze e Provincia (FLMU), che non ha sottoscritto il CCNL applicato nell’unità produttiva, di indire assemblee sindacali ex articolo 20 della legge n. 300 del 1970. La FLMU propone quindi ricorso ex articolo 28 della sopra citata legge avanti al Tribunale di Firenze affinché il Giudice del Lavoro adito rimuova la presunta condotta antisindacale del datore di lavoro. Tuttavia, il giudice di prime, dapprima con proprio decreto, quindi con sentenza n. 1156/2005 di rigetto dell’opposizione promossa avverso il predetto decreto, respingeva la domanda avanzata da parte sindacale. Parimenti si pronunciava la Corte d’Appello di Firenze in funzione di giudice del gravame, la quale, con sentenza depositata in data 08 marzo 2007, pur respingendo l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla società Telecom Italia s.p.a. per presunta mancanza di attualità della condotta antisindacale, accoglieva nel merito le ragioni dell’appellata, confermando il giudizio di primo grado.
Prima, tuttavia, di analizzare le ragioni che hanno condotto la Suprema Corte a cassare con rinvio la predetta sentenza della Corte d’Appello di Firenze, si conceda un’ultima, lapidaria, considerazione di ordine prettamente processuale. Nella sentenza in commento, il giudice di legittimità respinge, in via preliminare, l’eccezione di inammissibilità avanzata nel proprio controricorso da parte della società T. avente ad oggetto la violazione del c.d. “principio di autosufficienza” in quanto il sindacato ricorrente non aveva riportato nel corpo del ricorso il testo dell’articolo 5 dell’Accordo interconfederale del 1993, pur invocato nelle proprie difese. La Corte, facendosi con ciò interprete delle istanze provenienti in tal senso da una certa parte della dottrina[2], respinge condivisibilmente l’eccezione sulla base di una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 369, secondo comma, n. 4 del C.p.c.[3] per cui l’onere del ricorrente di depositare copia dei contratti collettivi sui quali si fonda il ricorso può dirsi assolto anche solo mediante la trascrizione, nel testo del ricorso, della clausola sulla quale si basano le doglianze più importanti, a condizione che il testo integrale dell’accordo collettivo sia stato depositato nei precedenti gradi di giudizio e, dall’elenco dei documenti depositati, risulti la richiesta, indirizzata alla Cancelleria del giudice a quo, di trasmissione del fascicolo d’ufficio. Non importa, pertanto, riprodurre pedissequamente tutte le clausole citate (nel caso di specie, la n. 5 dell’Accordo interconfederale), ma solo quella su cui si fondano le questioni principali (sempre nel caso di specie, la clausola n. 4 dello stesso Accordo), purché l’Accordo collettivo sia in atti. E ciò anche alla luce dell’articolo 111, secondo comma, della Costituzione, il quale impone la soccombenza di inutili formalismi (che portino, eventualmente, anche ad un eccessivo allungamento dei tempi del processo) a fronte della sostanziale tutela del diritto di difesa.
Detto forse in termini non propriamente giuridici, questo principio è bellissimo, peccato che non valga sempre e peccato che non valga mai a favore della società contro ricorrente. Infatti, a distanza di appena 24 giorni dalla pubblicazione della sentenza in esame, la stessa società Telecom Italia s.p.a. (questa volta in veste di ricorrente e nei confronti di un diverso sindacato) con la sentenza pronunciata dalla Sezione lavoro della Corte di Cassazione n. 17458 del 31/07/2014, vedeva accolta, nei suoi confronti, l’eccezione di inammissibilità avanzata dal Sindacato Nazionale Autonomo Telecomunicazioni Radiovisioni (SNATER, in qualità di contro ricorrente) per difetto di specificità della contestazione ex articolo 366 bis del codice di rito.[4] Ora, anche ammesso che nel secondo caso il principio formalistico in questione è diverso dal primo, che nel processo del lavoro ci sono già poche regole[5] e che ogni processo presenta proprie peculiarità tali da distinguerlo da qualsiasi altro procedimento giudiziario, pure affine per argomento (come, appunto, nel caso di specie), resta comunque il fatto che il principio di prevalenza del diritto di difesa ex articolo 111 della Costituzione deve imporsi quale fondamentale criterio ispiratore di ogni “giusto processo”, a prescindere dalla sfortuna processuale (rectius: posizione) formalmente rivestita.
Il diritto di indire assemblee sindacali come prerogativa ad esercizio individuale: il “non – limite” dell’articolo 19 della legge n. 300 del 1970
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione sancisce il diritto del singolo componente di una RSU, che sia stato eletto nelle liste di un sindacato dotato di rappresentatività ai sensi dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, a convocare l’assemblea dei lavoratori di cui all’articolo 20 della stessa legge sulla base della considerazione per cui se anche la predetta norma fosse interpretata restrittivamente nel senso di escludere, in capo al singolo dirigente di una RSA, il potere di convocare l’assemblea sindacale, nulla vieta, comunque, all’autonomia negoziale di prevedere la costituzione in azienda di organismi di rappresentanza sindacale ulteriori rispetto alla RSA e dotati di prerogative diverse rispetto a quelle positivamente stabilite dal titolo III della citata legge, con il solo limite posto dall’articolo 17 dello Statuto. Tali organismi sarebbero, appunto, le RSU, istituite dall’Accordo interconfederale del 1993, e tra tali poteri rientrerebbe anche quello, riservato a ciascun componente della RSU, di convocare autonomamente l’assemblea di lavoratori.
In realtà, al contrario di quanto sembra emergere dalle righe della motivazione in commento, la questione non è così scontata, tanto che anche in dottrina si sono registrati orientamenti difformi[6]. Infatti, non può nascondersi che la suddetta ricostruzione presti il fianco ad alcuni profili problematici o, quantomeno, incerti, specie con riferimento alla titolarità di diritti diversi rispetto a quelli espressamente previsti dalla legge. Non vi sono, infatti, dubbi sul fatto che l’autonomia negoziale possa prevedere fattispecie ulteriori rispetto a quelle legislativamente date, sia sotto il profilo dei possibili soggetti titolare di prerogative sindacali, sia sotto quello delle prerogative sindacali stesse. In tal senso, l’indicazione che proviene dalla sentenza in esame è oltremodo condivisibile, in quanto il diritto sindacale è “un diritto senza leggi”[7], ovvero un diritto nel quale le leggi potrebbero anche esserci (ed in alcuni casi sarebbe meglio se ci fossero, come, ad esempio, con riferimento all’istituto della rappresentatività sindacale nel settore privato), ma che si è preferito lasciare alla più o meno libera determinazione delle parti in gioco. Ciò è tanto più vero se si considera, ad esempio, che, con riferimento alle disposizioni del citato Accordo interconfederale del 1993 o, comunque, di un qualsiasi contratto collettivo di lavoro, si utilizzano comunemente le espressioni “articolo” e “comma”, che sono proprie del linguaggio legislativo (ed anche la sentenza in commento adotta questo linguaggio), piuttosto che il termine “clausola”, che invece appartiene al mondo della contrattualistica, e ciò vale a dimostrare, sia pure indirettamente, il ruolo che tali fonti assumono nell’ambito del diritto sindacale. Quindi, possono coesistere “centri di imputazione sindacale” diversi dalle RSA di cui al martoriato articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori nonché diritti diversi da quelli previsti dalla restante parte (invero meno tartassata) titolo III della medesima legge.
[1] La questione della validità o meno del principio del predente vincolante, o stare decisis, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano ha trovato ormai una propria stabilizzazione in quell’orientamento giurisprudenziale, da ultimo ribadito dalle stesse Sezioni unite della Corte di Cassazione, per cui, nonostante il sistema processuale nazionale non preveda espressamente alcun obbligo normativo di conformazione a precedenti pronunciamenti giurisprudenziali, la regola dello stare decisis rappresenta comunque un valore o, quantomeno, una direttiva di tendenza che rappresenta un limite oggettivo alla modificazione degli orientamenti giurisprudenziali (Cass. Sez. Unite, 31 luglio 2012 n. 13620). Per una ulteriore analisi dei profili problematici connessi all’applicabilità della regola del predente vincolante nell’ordinamento nazionale, si rinvia a M. TARUFFO, Precedente e giurisprudenza, in Riv. Trim. dir. proc. civ., fasc. 3, 2007, pag. 709, per cui “nei sistemi − come il nostro − in cui si richiama la giurisprudenza, si fa riferimento solitamente a molte decisioni: talvolta sono dozzine o addirittura centinaia, anche se non tutte vengono espressamente citate. Ciò implica varie conseguenze, tra cui la difficoltà − spesso difficilmente superabile − di stabilire quale sia la decisione che davvero è rilevante (se ve n’è una) oppure di decidere quante decisioni occorrono perché si possa dire che esiste una giurisprudenza relativa ad un determinata interpretazione di una norma”.
[2] Si veda, ad esempio, A. GIUSTI, L’autosufficienza del ricorso per cassazione civile, in Giust. civ., fasc. 5-6, 2013, pag. 247, per cui “La lettura giurisprudenziale più estrema del principio di autosufficienza si risolve in una forma di giustizia negata, nella declamazione di un fin de non recevoir che non trova riscontro nella disciplina positiva e si pone in contrasto con la funzione di garanzia assegnata dalla Costituzione alla Corte di cassazione”.
[3] Tale interpretazione trova origine nella non troppo remota sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione n. 22726 del 03 novembre 2011.
[4] Nella sentenza citata si legge, infatti, che “Deve, in primo luogo, rilevarsi che il quesito formulato da T. non risponde ai requisiti di cui all’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis. Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio […] Nella specie la ricorrente formula un quesito generico con il quale non indica le ragioni dell’infondatezza dell’opinione della Corte né propone la sua interpretazione delle norme”.
[5] Almeno così si legge in S. NESPOR, Il Paese senza regole e il processo del lavoro, il Mulino, 4/2008, pagg. 658-663.
[6] In senso contrario alla possibilità, per il singolo membro di una RSU, di convocare autonomamente l’assemblea si veda, ad esempio, F. MACIOCE, Nota a Cass. Civile n. 3072 del 2005, in Lavoro nelle p.a., fasc. 2, 2005, pag. 388, per cui: “Sulla base delle argomentazioni che precedono, si condivide pienamente l’orientamento della Suprema Corte di voler attribuire alla RSU nel suo complesso e non ai singoli componenti di essa l’esercizio dei diritti sindacali di organizzazione”.
[7] M. MISCIONE, Dialoghi di Diritto del lavoro, IPSOA, 2010, II Edizione, pagg. 23 ss. per cui “Per garantire al meglio la libertà, è stato evitato per quanto possibile l’intervento dello Stato. Il diritto sindacale italiano, in particolare per il lavoro privato, ha poche se non pochissime fonti di legge: può essere definito un diritto senza leggi”.
Considerazioni finali
La sentenza in commento, riconoscendo a ciascun componente della RSU individualmente inteso il potere di indire l’assemblea dei lavoratori (ex articolo 20 della legge n. 300 del 1970), purché sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nella azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività ai sensi dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori (alla luce dell’ultima lettura datane dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 231 del 2013) finisce per riconoscere a tali soggetti una prerogativa sindacale (quantomeno nelle modalità di esercizio) che non è prevista né dalla legge né dall’autonomia negoziale delle parti. Tutto ciò, anche se da un punto di vista strettamente giuridico potrebbe rappresentare un certa forzatura rispetto ad una rigorosa interpretazione delle norme di legge o delle clausole di contrattazione collettiva, alla fine dei conti, non produce significativi squilibri nell’ambito delle relazioni tra datori di lavoro e lavoratori. E questo perché, se pure da un lato la giurisprudenza tende (e non sempre) ad allargare le maglie della tutela delle prerogative dei lavoratori, dall’altro lato, l’esecutivo sembra sempre più orientato a circoscrivere (rectius modernizzare) le posizioni dei lavoratori meritevoli di protezione da parte dell’ordinamento giuridico[1]. Insomma, la Cassazione raddoppia, il Governo dimezza.
[1] A titolo esemplificativo, si veda l’articolo 7 del d.l. 24 giugno 2014 n. 90, conv. con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014 n. 114 il quale prevede che, a decorrere dal 1° settembre 2014, i contingenti complessivi dei distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali già attribuiti al personale delle pubbliche amministrazioni, sono ridotti del 50% per ciascuna associazione sindacale. Per approfondimenti sul tema si veda anche la circolare n. 5/2014 del Dipartimento della Funzione Pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.